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Semestre filtro: una promessa “aperta” rivelatasi ambigua

Negli ultimi mesi, parlare con studenti e studentesse del semestre filtro significa ascoltare storie che iniziano tutte quante allo stesso modo: giornate che si allungano, spazi personali che si restringono, abitudini che saltano completamente. C’è chi ha smesso di allenarsi, chi non esce più di casa se non per necessità, chi dice di non ricordare l’ultima volta in cui ha avuto un pomeriggio davvero libero e la mente sgombra da un chiodo fisso che non se ne va. Dentro questa quotidianità stravolta, in cui la pace diviene un lusso, si inserisce il nuovo percorso pensato per l’accesso ai Corsi di Laurea del semestre filtro. Sulla carta, il progetto per le istituzioni è chiaro: niente test preliminare, tre insegnamenti comuni in tutta Italia, Biologia, Chimica e Fisica, ed esami nazionali per orientarsi in modo più “consapevole”. Un sistema che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto ampliare le possibilità di ingresso e ridurre le disparità iniziali. 

Ma il racconto di chi lo vive restituisce un’immagine diversa. Il tempo è ridotto al minimo: due mesi e mezzo per seguire lezioni, aggiornarsi su materiali didattici che cambiano spesso e prepararsi agli esami. Il ritmo è veloce, troppo veloce. Un universitario la mette giù senza troppi giri di parole: «Non è che sia difficile: è che arriva tutto insieme, senza respiro». Il passaggio da 60 a 93 domande negli esami contribuisce ad alimentare un clima già percepito come una rincorsa continua. Per i neodiplomati, il salto è ancora più evidente. Il semestre  nascerebbe come avvicinamento graduale al mondo universitario, ma molti lo vivono come un ingresso brusco, senza gli strumenti necessari. La teoria sembra comprensibile finché resta su slide e registrazioni, soprattutto alla luce del fatto che, per gli studenti, la mancata possibilità di dare feedback, nonché le problematiche generate dai vari malfunzionamenti dati dalla piattaforma, hanno reso le lezioni alienanti.

Il cambio di quotidianità parla chiaro.  Lezioni al mattino in DAD, con migliaia di studenti collegati; pomeriggi passati a rincorrere ciò che è sfuggito; serate sui libri con l’impressione di non essere mai davvero in pari. C’è chi questo lo esprime con disarmante schiettezza, perché portato ormai allo stremo: «Dalle 8:30 all’una di notte non esco dalla stanza. Non è studiare: è resistere». E accanto alla fatica arriva anche il peso economico a gravare sulle spalle dei ragazzi: 250 euro di iscrizione, circa 150 euro facoltativi per i libri e ulteriori spese diverse da studente a studente, e altre per chi ha scelto una doppia immatricolazione come margine di sicurezza. 

A questo si sommano condizioni pratiche molto diverse: non tutti hanno uno spazio proprio, una connessione stabile o un dispositivo adeguato. Seguire lezioni da un tavolo condiviso o da un computer che si blocca significa affrontare un percorso già difficile con un ostacolo in più. E qui arriva la parte più discussa: la promessa di un accesso “più aperto”. Nelle testimonianze, questa apertura appare più teorica che reale. L’intensità del programma favorisce chi parte già con gli strumenti giusti, con tempo, mezzi e un ambiente di studio stabile: «Dicono che è più inclusivo. Io vedo solo che regge chi ha più possibilità».

È questa la frattura che emerge con più chiarezza: un percorso nato per semplificare diventa un filtro basato sulla resistenza più che sulle competenze o sulla motivazione. Un orientamento che, nella pratica, funziona come una selezione non dichiarata. Di fronte a tutto questo, gli studenti cercano semplicemente un equilibrio possibile. C’è chi segue una tabella rigida, chi la cambia ogni settimana, chi procede a tentoni pur di non fermarsi. Le loro esperienze non sono identiche, ma la linea comune è evidente: fatica, adattamento continuo, e una costanza che somiglia più alla sopravvivenza che all’orientamento. Una quotidianità che, più di ogni intenzione ufficiale, mostra cosa significhi davvero affrontare questo semestre.

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